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*Diario del ladro / Jean Genet ; traduzione di Giorgio Caproni ; introduzione di Luciano Erba

pubblicazione   Milano : A. Mondadori, 1978
descrizione   XVII, 204 p. ; 19 cm.
serie   Gli Oscar ; 850
note   Edizione su licenza temporanea della Casa Editrice Il Saggiatore.


«...gli anni trascorsi, ormai una trentina, vale a dire l'arco di un'intera generazione, non hanno per nulla appannato la smagliante superficie verbale, nè tantomeno indebolito le soggiacenti motivazioni, della pagina genettiana. In sostanza, questa storia di ascetismo alla rovescia, questa ricerca dell'assoluto attraverso i notturni labirinti del male, ha guadagnato, col volgere del tempo, in chiarezza e semplicità. Le contraddizioni, o dicotomia, palesi oggi come ieri, non esigono più quello sforzo dialettico che impegnava critici e lettori in ardui tentativi d'impossibili soluzioni: restano pienamente tali. Nessuno sente più il disagio di "non aver capito". Meglio non capire che capire un'altra cosa. Ad esempio il male. Se questo ha da essere negazione totale, non vi sarà argomento che lo giustifichi, che gli restituisca una qualunque nota di positività. Sade, Hitler, militano nel campo del male? no, almeno a parere di chi ha dimestichezza con gli scioglilingua del tempo libero, questi signori hanno semplicemente un'idea del bene diversa dalla nostra; fanno del male in nome di quello che a loro sembra essere il bene, il sommo fine. Genet sembrerebbe più smaliziato: così non appena si accorge che l'ingenuo lettore rischia di scambiare la sua scelta del male per una sfida alla società iniqua e crudele, alla classe borghese ipocrita e benpensante, si affretta a chiarire, fin dalle prime pagine del Diario, che la sua avventura non intende affatto porsi sotto il segno della rivolta e della rivendicazione. Genet non si riconosce nei criminali "buoni" della letteratura, nei Vautrin, nei Jean Valjean; non ruba ai ricchi per dare ai poveri; non accusa nessuno; parla del "suo" e del "nostro" mondo con l'annoiato distacco di chi crede, o ha bisogno di credere, alla singolarità della propria vicenda, senza consentire che dietro la sostanziale tensione di tanta separatezza si nasconda, in ultimissima istanza, un proposito di rientro...».
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