Capolavoro indiscusso di John Steinbeck, punta di diamante del realismo americano, Furore uscì nel 1939, quando le rapide conquiste del New Deal rooseveltiano avevano già neutralizzato quasi del tutto l'incubo della Grande Depressione. Anche per questo, probabilmente, il suo successo fu enorme e immediato: quell'incubo tornava a risaltare dalle pagine del libro in tutta la sua evidenza e drammaticità, ma anche, inevitabilmente, coi tratti consolatori dello scampato pericolo. Eppure nel romanzo di consolatorio c'è ben poco: l'odissea della famiglia Joad, una famiglia di contadini costretta dalla miseria e dalla fame a lasciare l'Oklahoma per raggiungere la lontanissima California alla ricerca angosciosa di un lavoro e di un posto dove vivere, è una vera e propria esplorazione dell'inferno: l'inferno sociale e morale di un'America stremata, in cui pochissimi profittatori accumulavano sporche fortune grazie allo sfruttamento inumano e violento di masse sempre più grandi di agricoltori e mezzadri ridotti sul lastrico; e in cui ogni tentativo di ribellione veniva soffocato nel sangue da un potere che la malavita andava velocemente e massicciamente sottraendo agli organi istituzionali.
La sconfitta dei Joad e di Tom, il figlio più consapevole e coraggioso, è una sconfitta senza riscatto, che tuttavia lascia intravedere, nelle forme di spontanea e irriflessa solidarietà capaci di svilupparsi fra le vittime, la traccia ancorché labile di una speranza: esigua, certo, e rischiosa, e persino patetica; ma comunque ferma a testimoniare, pur dentro l'inferno, una ineliminabile possibilità di bene.